Vento da sud!
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Proposta di legge d’iniziativa popolare. Il testo normativo sarà adesso sottoposto all’esame delle commissioni in Senato Obiettivo raggiunto. Raccolte e ampiamente superate le 50mila firme – diverse centinaia quelle raccolte in Calabria – a supporto del progetto di legge d’iniziativa popolare contro l’autonomia differenziata messa a […]
Federalismo Fiscale News Riferimenti NormativiObiettivo raggiunto. Raccolte e ampiamente superate le 50mila firme – diverse centinaia quelle raccolte in Calabria – a supporto del progetto di legge d’iniziativa popolare contro l’autonomia differenziata messa a punto dal governo Meloni. A questo punto l’iniziativa legislativa, promossa dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, presieduto dal professore ed ex parlamentare Massimo Villone, dovrà essere posta all’esame del Senato.
Nelle commissioni di Palazzo Madama, peraltro, proprio nei giorni scorsi sono iniziate le prime votazioni sulla riforma Calderoli che mira a fornire maggiori poteri alle Regioni attraverso specifiche intese con lo Stato. La proposta del Coordinamento, di alcuni partiti del centrosinistra, sindacati e associazioni varie intende invece modificare direttamente il terzo comma dell’articolo 116 e l’articolo 117 della Costituzione per escludere la possibilità che una legge quadro generica nasconda intese tra Stato e singole regioni.
Nel merito, la legge d’iniziativa popolare punta a correggere i punti deboli prima evidenziati nell’impianto degli articoli 116 (comma 3) e 117, togliendo così il fondamento normativo alle scelte perseguite dal ministro Calderoli.
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L’autonomia differenziata voluta dal governo Meloni, il cosiddetto ddl Calderoli sul quale il Consiglio dei ministri del 2 gennaio ha dato il via libera, è da “respingere con forza”, perché “cristallizza e peggiora i divari e le diseguaglianze esistenti” sul territorio italiano. Lo afferma, in una nota, […]
Federalismo Fiscale NewsL’autonomia differenziata voluta dal governo Meloni, il cosiddetto ddl Calderoli sul quale il Consiglio dei ministri del 2 gennaio ha dato il via libera, è da “respingere con forza”, perché “cristallizza e peggiora i divari e le diseguaglianze esistenti” sul territorio italiano. Lo afferma, in una nota, il segretario confederale della Cgil, Christian Ferrari. “La lettura delle bozze circolate sugli organi di stampa e le stesse dichiarazioni fatte nella conferenza stampa seguita al Consiglio dei ministri svoltosi ieri, confermano tutte le criticità di fondo del progetto del governo sull’attuazione dell’art. 116, terzo comma della Costituzione”, spiega il dirigente sindacale.
Sono tante le preoccupazioni della Cgil per un provvedimento divisivo, pericoloso, privo delle “risorse necessarie a ridurre i divari esistenti”, e che “non subordina l’iter di approvazione alla definizione delle leggi di principio per le tante, troppe materie di legislazione concorrente che le Regioni vogliono avocare a sé”. Altri punti deboli ravvisati dalla confederazione: “Non si individuano i limiti di unitarietà delle politiche pubbliche strategiche cui le intese non dovranno in nessun caso derogare – precisa Ferrari -, e non si prevede un adeguato coinvolgimento del Parlamento”.
“Continueremo a respingere con forza ogni ipotesi di riconoscimento di maggiore autonomia a un qualsiasi territorio che non coniughi, in modo efficace, il valore della prossimità con il superiore principio di solidarietà – prosegue Ferrari -, che non sia subordinato alla salvaguardia dell’unitarietà dei diritti civili e sociali fondamentali della popolazione e che non escluda materie indisponibili come l’istruzione”.
“Per quanto invece riguarda le materie di rilevanza strategica (a partire da politiche energetiche, infrastrutture, trasporti) riteniamo che riconoscere alle Regioni la competenza esclusiva su di esse rappresenterebbe la rinuncia ad un governo nazionale e unitario delle politiche economiche, industriali e di sviluppo del Paese”.
Il documento del governo sta ancora circolando in bozze, ma sono testi che, secondo Ferrari, già “dimostrano tutta la distanza che separa le parole dai fatti. Da una parte il governo sostiene di voler rispettare l’unità economica e sociale del paese, dall’altra non considera prioritaria la definizione delle leggi di principio inderogabili a tutela di quella stessa unità”.
“Inoltre – aggiunge il segretario confederale – non basta definire cosa sono i Lep (peraltro con l’inaccettabile procedura stabilita dalla legge di bilancio che esautora il Parlamento) se non si prevedono interventi straordinari per mettere tutti i territori nelle stesse condizioni di partenza e se non si individuano i fondi aggiuntivi necessari per farli rispettare. E non basta dire che si supera la spesa storica, se si continua a ragionare di misure a risorse invariate – quindi limitate a quanto speso fino a oggi – perché a medesime risorse corrisponderanno gli stessi divari già in essere, a partire da quelli in sanità”.
Il ddl Calderoli vuole, secondo Ferrari, “disegnare un nuovo rapporto tra Stato, Regioni e autonomie locali, tra istituzioni e cittadini, con semplici procedure amministrative, senza alcun confronto con le parti sociali, senza coinvolgere i cittadini, e senza il rispetto delle prerogative del Parlamento, sede della sovranità popolare, relegato a una funzione meramente consultiva e di ratifica finale. La Cgil continuerà a contrastare ogni provvedimento che favorisca la frammentazione dei diritti civili e sociali fondamentali, delle politiche pubbliche e della contrattazione collettiva nazionale, e a mobilitarsi – conclude il segretario confederale – per rivendicare interventi e misure volti, invece, a ridurre le drammatiche disuguaglianze esistenti”.
Ringrazio i partecipanti a questo incontro di studio e i molti collegati da remoto. Presiedo questo evento in quanto “presidente emerito” del Nens poiché il nuovo presidente, il Professor Pisauro, è impegnato come relatore. L’argomento che trattiamo oggi, l’autonomia differenziata, è di stretta attualità. In […]
Documenti NewsRingrazio i partecipanti a questo incontro di studio e i molti collegati da remoto.
Presiedo questo evento in quanto “presidente emerito” del Nens poiché il nuovo presidente, il Professor Pisauro, è impegnato come relatore.
L’argomento che trattiamo oggi, l’autonomia differenziata, è di stretta attualità. In effetti siamo stati fortunati che il nostro convegno avesse luogo solo pochi giorni dopo l’approvazione del provvedimento sull’autonomia differenziata da parte del Consiglio dei ministri.
Ma in verità viviamo oggi anche una sorta di “giorno della marmotta” che, come sapete, ricorre il 2 febbraio, in quanto ci troviamo ancora una volta a discutere, in modo ossessivamente ripetitivo, argomenti a lungo affrontati in passato.
Per esempio, nei giorni scorsi ho recuperato un rapporto del Nens del 2008 che discuteva la legge delega per la riforma in senso federale della finanza pubblica italiana in relazione sia al prelievo tributario che alla attribuzione della responsabilità della spesa pubblica e alla distribuzione delle risorse sul territorio nazionale.
Allora, come oggi, il ministro era Roberto Calderoli.
Le preoccupazioni che emergevano allora sono le stesse di oggi, e così gli effetti probabili delle riforme proposte. Emergevano allora preoccupazioni in relazione alla parità di trattamento tra i cittadini, e preoccupazioni derivanti dal vincolo delle risorse disponibili, sottolineando come la riforma proposta avrebbe determinato un significativo aumento delle risorse destinate al nord con un incremento della spesa pubblica che avrebbe dovuto essere finanziato o con un aumento della tassazione (cosa improbabile), o mediante una drastica riduzione dei servizi erogati, o con un aumento del disavanzo di bilancio e del debito pubblico, o con una riduzione della risorse destinate al sud.
Come si vede, le questioni in discussione sono le stesse su cui si dibatte oggi. Vedremo se anche le conclusioni saranno le stesse, in quanto la delega Calderoli rimase inattuata, salvo la parte relativa alla attribuzione alle Regioni delle risorse per la sanità, ripartite alla fine secondo buon senso, in base a un pro capite corretto per l’età della popolazione.
Tutto ciò ci riporta a ragionare ancora una volta a riflettere sull’idea stessa di federalismo, e sulle sue conseguenze.
A fondamento del decentramento delle funzioni di governo vi è da un lato il principio di sussidiarietà, e quindi la opportunità di una corrispondenza dei livelli amministrativi rispetto alla fruizione del bene o servizio pubblico, e dall’altro la distinzione, a livello economico, tra beni pubblici centrali, locali o sovranazionali che in base alla loro natura dovrebbero essere prodotti e gestiti a livelli diversi per ragioni di efficienza economica. Ambedue gli approcci suggeriscono l’opportunità di un certo grado di decentramento.
Va considerato tuttavia che le ricerche empiriche hanno dimostrato in modo esaustivo che alle iniziative concrete di devoluzione corrisponde un aumento delle diseguaglianze che può essere più o meno giustificabile ed accettabile. Si tratta di una questione che va tenuta sempre presente.
Inoltre, va ricordato che la distinzione tra competenze esclusive e concorrenti cui il nostro Titolo V fa ricorso è molto incerta. In concreto, a ben vedere, salvo attività con un impatto limitato, non esistono funzioni esclusive attribuibili con certezza agli enti decentrati, in quanto esistono sempre effetti esterni (di “traboccamento”), e quindi sovrapposizioni potenziali di competenze, tra enti sovraordinati e sotto ordinati, che andrebbero gestite, per ragioni di efficienza, mediante trasferimenti, o competenze parzialmente congiunte, come avviene in tutti i Paesi. Senza dimenticare che gli assetti federali, o così detti, variano nel tempo e nello spazio, in quanto l’evoluzione dei sistemi economici può suggerire di trasferire competenze da un livello amministrativo ad un altro; inoltre se si guardano le esperienze concrete dei diversi Paesi, si può verificare che le soluzioni adottate in concreto sono molto diverse: vi sono beni che alcuni Paesi decentrano, e che altri mantengono accentrati, stati unitari con finanze molto decentrate e stati federali con finanze centralizzate. Ed infine negli ultimi decenni si è manifestata una chiara tendenza alla attribuzione di funzioni importanti ad entità sovranazionali.
Ne deriva che la soluzione adottata dal nostro Titolo V è errata e pericolosa. Meglio sarebbe stato inserire a livello costituzionale esclusivamente il principio di sussidiarietà e quello della prevalenza dell’interesse nazionale, e lasciare alla legge ordinaria l’articolazione concreta del processo di attribuzione delle funzioni specifiche, in modo da lasciare una sufficiente flessibilità al sistema.
Ed ancora, alla attribuzione di poteri di spesa dovrebbe in teoria corrispondere una adeguata responsabilità fiscale autonoma, in modo da evitare facili fenomeni di free riding. Ma è proprio questo che le proposte Calderoli evitano con cura: il modello di riferimento, infatti, è quello delle Regioni a statuto speciale che beneficiano di sostanziali autonomie e mantengono il gettito fiscale localmente prodotto. L’estensione di tale modello sarebbe la fine dell’unità amministrativa e politica del Paese. Il problema ormai maturo sarebbe piuttosto quello opposto e cioè quello di superare la “specialità” di alcune Regioni che si giustificava in base a considerazioni di carattere economico e politico oggi in gran parte superate.
Un’ultima notazione: l’approccio finora seguito dagli “autonomisti del nord” per giustificare le loro richieste è quello di far ricorso al concetto di residuo fiscale che sarebbe impropriamente trasferito allo Stato centrale dopo essere stato prodotto a livello locale. In verità si tratta di un concetto che si basa su un’illusione ottica: in uno Stato unitario, federale o centralizzato che sia, è logicamente giusto che ogni individuo benefici dello stesso livello di servizi derivanti dalla spesa pubblica, pagando al tempo stesso, a parità di capacità contributiva, le medesime imposte. Questo è l’unico criterio che andrebbe rispettato (e non lo è certo in Italia). All’interno di uno stesso paese il fatto che, per esempio, in Lombardia vi siano più individui ricchi che pagano più tasse rispetto a quanto accade in Calabria, è del tutto irrilevante, e non se ne dovrebbe tenere conto. Ma è proprio questa la ragione del contendere ieri come oggi.
Fonte:https://www.nens.it/archivio/documenti/convegno-autonomia-differenziata-lintervento-di-visco
Nord e Sud nella storia d’Italia Da Villari a Franchetti, da Sonnino a Nitti, da Gramsci a Salvemini e Gobetti, i più importanti intellettuali e uomini politici dell’età liberale hanno considerato il divario Nord/Sud «la questione nazionale per eccellenza». Dopo il ventennio fascista, che cancellò […]
LettureDa Villari a Franchetti, da Sonnino a Nitti, da Gramsci a Salvemini e Gobetti, i più importanti intellettuali e uomini politici dell’età liberale hanno considerato il divario Nord/Sud «la questione nazionale per eccellenza». Dopo il ventennio fascista, che cancellò dal dibattito pubblico il problema, nell’Italia repubblicana la questione ritornò nell’agenda politica dei partiti di massa. La riforma agraria, la Svimez, la Cassa per il Mezzogiorno avvicinarono le due parti del paese. Attraverso i contributi di alcuni dei maggiori storici contemporanei, che si richiamano qui a Guido Dorso e al Centro di studi a lui intitolato, il volume intende ripercorrere criticamente il dibattito e valutare l’importanza odierna della questione meridionale. Corredano la disamina scritti di Antonio Giolitti e Giorgio Napolitano.
giudice emerito della Corte costituzionale, è professore emerito nella Scuola Normale Superiore. Tra i suoi libri per il Mulino: «Lo Stato fascista» (2010), «L’Italia: una società senza Stato?» (2011), «Lo Stato e il suo diritto» (con P. Schiera e A. von Bogdandy, 2013), «Chi governa il mondo?» (2013), «Diritto amministrativo. Una conversazione» (con L. Torchia, 2014), «Governare gli italiani. Storia dello Stato» (2014) e «Dentro la Corte» (2015). È presidente del Centro di ricerca per il pensiero meridionalistico Guido Dorso.
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Il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge sulla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina, giovedì 16 marzo. La norma dovrà passare dall’approvazione del Parlamento per diventare una legge, ma attualmente è già in vigore. Il ponte sullo Stretto è una delle infrastrutture più discusse degli ultimi decenni in Italia: il progetto era stato bloccato dal governo Monti nel 2012, e proprio da quel progetto ripartiranno i lavori nei prossimi mesi, nelle intenzioni del governo Meloni.
Il contenuto principale del decreto approvato, che non è ancora disponibile – nonostante una bozza circolata poco prima dell’approvazione chiarisca i contenuti – è la ricostituzione della società Stretto di Messina Spa. Si tratta di una società nata nel 1981 sempre con lo scopo di costruire il ponte, e che dopo decenni era stata messa in liquidazione nel 2013. Il decreto legge è stato approvato “salvo intese”, cioè con un’intesa sulle linee generali ma con alcuni aspetti tecnici che sono ancora da definire e su cui non c’è un accordo definitivo. Il testo prevede comunque che il progetto esecutivo sia approvato entro il 31 luglio 2024.
Ci sarebbero quindi due piloni, uno posizionato in Sicilia e uno in Calabria – di un’altezza stimata di circa 400 metri, superiore alla torre Eiffel – senza altri sostegni nel mezzo. Il pilone siciliano dovrebbe sorgere nell’area di Messina: una delle ipotesi è vicino al paese di Ganzirri, l’altra vicino a Falcata. Quello calabrese sarebbe vicino a Reggio Calabria: o a Punta Pezzo o a Concessa. Il progetto è di un ponte strallato, cioè retto da dei cavi di acciaio e non da ulteriori piloni.
Si tratterebbe del ponte di questo tipo più lungo al mondo: per fare un paragone, il ponte di Brooklyn a New York è lungo circa 1,8 chilometri e alto 84 metri. L’altezza è ridotta anche perché non si tratta di un ponte a una sola campata. Attualmente, il ponte più lungo al mondo è quello sullo stretto di Akashi, in Giappone: è lungo 3,9 chilometri, ma la campata più lunga è di ‘solo’ 1,9 chilometri. Il progetto attuale del ponte sullo Stretto di Messina, quindi, diventerebbe il ponte a campata unica più lungo al mondo. L’opera è discussa da decenni, come detto, e il progetto ha una lunga storia di continui rinvii, tra pro e contro della costruzione.
Nel 1968, con la legge 384, l’Italia diede ad Anas, alle Ferrovie dello Stato e al Consiglio nazionale delle ricerche il compito di valutare se un ponte sullo Stretto di Messina fosse tecnicamente fattibile. Nel 1971, al termine della valutazione, il governo guidato da Emilio Colombo decise di autorizzare la creazione di una società per progettare, creare e gestire il ponte.
Nel 1981, come detto, il governo Forlani creò la Stretto di Messina Spa. Il primo sopralluogo si svolse quell’anno, a settembre. Negli anni successivi, dopo lunghi dibattiti e numerosi rinvii, si abbandonò l’idea di un ponte a più campate per andare verso un progetto a campata unica.
Tra gli anni Novanta e Duemila ci furono diversi passaggi tecnici verso la realizzazione: la Stretto di Messina Spa presentò un progetto nel 1992, e il Consiglio superiore dei lavori pubblici diede parere favorevole nel 1997. Nel 2001, durante la campagna elettorale Silvio Berlusconi disse che i lavori sarebbero ripresi sotto un suo eventuale governo, e che sarebbero finiti entro il 2012. Nel 2003, il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile approvò il progetto preliminare del ponte.
Nel 2005, sempre durante il governo Berlusconi, il consorzio Eurolink, guidato dalla società Salini-Impregilo, vinse il bando per la realizzazione dell’opera, e venne steso il piano finanziario: 2,5 miliardi di euro a disposizione, più 1,85 miliardi finanziati attraverso prestiti dalle banche e 1,81 miliardi con prestiti obbligazionari. Il costo totale previsto era di 6,16 miliardi di euro. Nel 2006, furono finalizzati anche gli ultimi accordi.
Il governo Prodi, in carica proprio dal 2006, fermò il progetto nel 2008: erano troppi i dubbi sulla possibilità tecnica di portare avanti i lavori, sui rischi sismici nelle due Regioni, e sulla effettiva utilità – anche economica – del ponte sullo Stretto di Messina. Tornato al governo, Silvio Berlusconi fece ripartire il progetto tra il 2008 e il 2011, ma nel 2012 arrivò il governo tecnico di Mario Monti. Dato che la situazione economica dell’Italia richiedeva di concentrare l’attenzione altrove, il progetto fu bloccato e la società Stretto di Messina messa in liquidazione. Fino al 2023, la gestione della società è stata in mano Vincenzo Fortunato, nominato commissario liquidatore.
I contratti furono sospesi, cosa che portò a una causa legale del consorzio Eurolink. I giudici, però, hanno dato ragione al governo in primo grado, nel 2018. L’appello è stato fissato per il settembre 2023, ma in passato i vertici di Impregilo si sono detti pronti a rinunciare alla causa se i lavori fossero ripartiti. Nel 2020, il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha creato una commissione per valutare il progetto, rilanciando l’idea di un ponte su tre campate finanziato con soldi pubblici. Nel 2022 è stato deciso un nuovo studio di fattibilità. Infine, il 16 marzo 2023 il governo Meloni con un decreto ha riavviato la progettazione dell’opera, inclusi i vecchi contratti vigenti.
Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture e dei Traporti, ha parlato in moltissime occasioni negli ultimi mesi del progetto del ponte e della sua volontà di costruirlo. Tra i punti a favore del ponte citati da Salvini c’è l’impatto sulle emissioni inquinanti: “Si risparmieranno almeno 140 mila tonnellate di co2 nell’aria e si ripulirà il canale di Sicilia”, ha detto, definendo il ponte sullo Stretto di Messina “la più grande opera green al mondo”. Gli aspetti menzionati dai sostenitori del ponte sono in effetti anche quelli legati alla riduzione del traffico: si ridurrebbe anche il numero di navi che attraversano lo Stretto, soprattutto i traghetti che attraversano il tratto di mare trasportando auto e treni.
In più, per quel che riguarda i grandi costi di realizzazione, c’è chi sostiene che verrebbero recuperati sia tramite il pedaggio per l’attraversamento, sia con i benefici al commercio e al turismo. Il tempo di attraversamento dello Stretto si ridurrebbe da 45 minuti (ma anche alcune ore, contando il tempo di imbarco) a una ventina di minuti circa.
L’impatto economico potenzialmente positivo riguarderebbe anche l’occupazione: non ci sono stime precise, ma Salvini ha parlato di “decine di migliaia di persone” coinvolte nella realizzazione del ponte. Oltre alle imprese di costruzione, ci sarebbero tutte le aziende dell’indotto collegato.
I critici del ponte, invece, hanno sottolineato soprattutto due aspetti: il rischio sismico della zona, e i grandi costi che supererebbero i vantaggi della nuova infrastruttura, oltre all’indubbio impatto ambientale di una costruzione così imponente. Per quanto riguarda i costi, la Corte dei Conti nel 2009 ha stimato che i costi solo nel periodo 1982-2005 siano stati di circa 130 milioni di euro, mentre altre ricostruzioni hanno indicato un totale tra i 300 e i 600 milioni di euro, includendo i costi di gestione, gli studi, gli stipendi dei dipendenti…
Una stima del costo complessivo per realizzare l’opera, non ufficialmente condivisa dal governo Meloni, è di circa 10 miliardi di euro. Una quantità simile di denaro, peraltro nello stesso periodo in cui viene riformato il codice degli appalti e vengono ‘accelerate e sburocratizzate’ le procedure, potrebbe portare anche al rischio di infiltrazioni criminali negli appalti, forniture, consulenze e altri ambiti della progettazione e realizzazione.
Allo stesso tempo, sostiene chi si oppone al progetto, i vantaggi sulla mobilità si potrebbero ottenere anche migliorando la rete interna dei trasporti ferroviari in Calabria e in Sicilia. Secondo Agostino Santillo, vicepresidente del gruppo del Movimento 5 stelle alla Camera intervistato da Fanpage.it, “l’unica certezza è che si riattiva un carrozzone mangiasoldi, la “Stretto di Messina Spa”, e si crea una nuova girandola di poltrone. Tutto il resto è avvolto nella nebbia”.
C’è poi l’aspetto del rischio sismico. Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, ha dichiarato che non c’è alcun rischio sismico per la realizzazione del ponte. Carlo Doglioni, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) ha spiegato a Fanpage.it che invece quella tra Sicilia e Calabria è “una zona notoriamente soggetta a terremoti tra i più forti che possono avvenire in Italia” perché “interseca una serie di faglie attive”. Detto questo, ha chiarito Doglioni, “gli ingegneri sismici italiani sono in grado di realizzare un ponte che possa resistere a eventi di questo genere”. La cosa importante è che “vengano adottati criteri tali per cui il ponte stesso sia in grado di resistere a qualsiasi fenomeno si verifichi”, anche “al più forte terremoto che possa mai avvenire”.
Divario di cittadinanza Un viaggio nella nuova questione meridionale Il divario di cittadinanza tra Nord e Sud del Paese è cresciuto negli anni successivi alla crisi del 2008. Nel silenzio dei media e in assenza di una “voce” da parte delle classi dirigenti nazionali e […]
LettureIl divario di cittadinanza tra Nord e Sud del Paese è cresciuto negli anni successivi alla crisi del 2008. Nel silenzio dei media e in assenza di una “voce” da parte delle classi dirigenti nazionali e locali, il tradizionale divario territoriale che ha caratterizzato la storia unitaria italiana ancora prima e ancor più che differenza negli indicatori economici, è disuguaglianza nelle condizioni di vita. I dati ci dicono che per la prima volta nella storia repubblicana si stanno riaprendo le distanze tra Nord e Sud negli indicatori sociali, a partire dell’istruzione e dalla sanità. Un processo che ci ha reso più deboli, in tutto il Paese, nel fronteggiare la pressione dell’epidemia da Covid-19 e che espone, soprattutto le regioni del Sud, a enormi rischi sociali di fronte al fortissimo impatto economico della crisi.
Questo volume è un diario di viaggio condotto negli ultimi quattro anni per vedere la vita di questo pezzo del nostro Paese. Un lungo peregrinare che narra di cosa rimane del sogno industriale degli anni Cinquanta in città dimenticate come Gela e che racconta le storie dei primari campani che si vanno a curare al Nord con il cuore in gola ma convinti che solo lì possono avere maggiori speranze di guarigione; dei pendolari alle prese con treni lumaca; delle mamme calabresi e siciliane che non studiano e non lavorano perché devono badare ai loro bambini in città dove non esistono asili nido o servizi per l’infanzia; dei giovani che hanno chiesto il reddito di cittadinanza perché in fondo non possono ambire ad altra forma di sostentamento; delle mafie che dalla povertà e dai bisogni traggono manovalanza per incrementare il loro esercito e fare affari al Nord. Un racconto che smentisce la vulgata di un Sud inondato di risorse ma che al tempo stesso evidenzia i disastri della classe dirigente recente e passata. La Costituzione detta dei principi comuni di cittadinanza in materie come l’istruzione, l’accesso alle cure sanitarie, l’assistenza sociale, le pari opportunità, la possibilità di fare impresa. Principi che oggi non sono rispettati in maniera omogenea nel Paese.
Luca Bianchi, economista, dal marzo 2018 è Direttore della SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno). È stato Capo Dipartimento del Ministero dell’Agricoltura e Assessore all’Economia della Regione Siciliana. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche sulle politiche di sviluppo territoriale. Ha scritto con Giuseppe Provenzano il volume Ma il cielo è sempre più su? (2010).
Antonio Fraschilla, giornalista, lavora a «la Repubblica» nella redazione di Palermo e collabora con «L’Espresso». Ha curato diverse inchieste sugli sprechi della politica e della pubblica amministrazione. Per Einaudi ha pubblicato Grandi e inutili. Le grandi opere in Italia (2015).
Impossibile affrontare l’annosa questione meridionale del nostro Paese prescindendo da queste pagine gramsciane. Il grande filosofo e politico analizza dinamiche che sono attuali ancora oggi, a cent’anni di distanza. «Esiste una volontà vera, da parte delle Istituzioni italiane ma non solo, di risolvere il divario […]
LettureImpossibile affrontare l’annosa questione meridionale del nostro Paese prescindendo da queste pagine gramsciane. Il grande filosofo e politico analizza dinamiche che sono attuali ancora oggi, a cent’anni di distanza. «Esiste una volontà vera, da parte delle Istituzioni italiane ma non solo, di risolvere il divario enorme che separa il Nord dal Sud del mondo, il Nord dal Sud dell’Europa, il Nord Italia dal Mezzogiorno?», era la domanda che, allora, Gramsci si poneva. Per lui, cent’anni fa, l’unica strada percorribile consisteva in un’alleanza tra il proletariato urbano e quello rurale, l’unica strada percorribile verso una piattaforma davvero rivoluzionaria. Scrive Gramsci in questo libro: «Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classi che gli permetta di mobilitare, contro il capitalismo e lo Stato borghese, la maggioranza della popolazione lavoratrice».